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Domenico IK6QGE

Le parole della radio

Curiosità etimologiche


Tutte le parole di ogni lingua conservano una traccia del percorso che hanno seguito dalle loro origini documentate fino alle forme attuali.

La linguistica, in generale, e la filologia e l'etimologia, in particolare, possono riesaminare tali percorsi e contribuire alla ricostruzione degli eventi che li hanno determinati.

  Applicheremo, qui di seguito, questo tipo di indagine ad alcuni dei termini che più frequentemente ricorrono nell'attività radioamatoriale, senza pretese esaustive, naturalmente, ma limitandoci a ricercare ed evidenziare i nessi che meglio si configurano come “curiosità etimologiche”.


Radio

La parola radio deriva dal latino radius, termine che indicava prima una verga o un bastone, poi, più specificamente, l'asta usata per livellare le granaglie nei recipienti che servivano per misurarne la quantità e, infine, per similitudine, la barra di legno che univa il centro di una ruota alla circonferenza.

Spingendo la ricerca più indietro nel tempo, si può risalire al greco rhábdos, che indicava un bastone o una radice, da cui rabdomante, che è la persona che sostiene di poter trovare l'acqua nei terreni servendosi, appunto, di una bacchetta.

Nel passaggio dal latino al volgare, molte consonanti dentali o velari hanno subìto un processo di palatalizzazione, cosicché da radius abbiamo raggio, come, per esempio, da meridies abbiamo meriggio, da sedium abbiamo seggio e così via.

Il raggio, per similitudine con la funzione che aveva nella ruota, ha indicato, in seguito, tutto quello che si diparte da un punto d'origine e si propaga verso l'esterno, come raggio luminoso o raggio di un cerchio o, con ulteriore variazione nella pronuncia, razzo.

Nelle parole derivate da radius, il processo di palatalizzazione non è stato generalizzato, per cui abbiamo raggio, da una parte, ma, per esempio, radiare (nel senso di espellere) o radioso (nel senso di brillante, fulgido), dall'altra.

Édouard Branly e Marie Curie, alla fine dell'Ottocento, cominciarono quasi contemporaneamente a usare il termine radio nell'accezione attuale, l'uno chiamando radioconducteur la sua rielaborazione del coesore di Calzecchi Onesti e l'altra proponendo il termine radioattività per indicare la capacità dell'uranio di produrre raggi o radiazioni e, successivamente, denominando radio (radium) l'elemento chimico da lei scoperto. Entrambi, ovviamente, utilizzarono la pronuncia classica con la dentale [d].

Qualche anno dopo, quando si trattò di parlare di onde elettromagnetiche che si propagavano da una fonte e conducevano un messaggio, si adottarono, anche nei brevetti, espressioni piuttosto generiche e approssimative, come, per esempio, telegrafia senza fili o trasmissione di impulsi e segnali elettrici.

La terminologia si stabilizzò nel 1906 quando, in una conferenza svoltasi a Berlino, sotto l'evidente influenza dei termini introdotti da Branly e Curie, si adottò la parola radio, sia per indicare gli strumenti che si usavano per ricevere e trasmettere le onde elettromagnetiche, sia per riferirsi all'attività che con tali strumenti si svolgeva.

A partire da quella data, la parola radio è stata accolta nella maggior parte delle lingue moderne (per es: in inglese – an amateur radio station; in spagnolo - una estación de radio; in francese - écouter une émission de radio; in tedesco - Radio hören), anche se persistono termini alternativi, come wireless (senza fili) in inglese o Rundfunk in tedesco.

In inglese, a dimostrazione del fatto che il termine radio è di recente acquisizione, il plurale non si forma seguendo la regola valida per la maggior parte delle parole terminanti in -o, e cioè aggiungendo -es al singolare, come potato/potatoes, tomato/tomatoes, ma aggiungendo solamente la -s, radio/radios, come avviene anche per altre parole entrate da poco nella lingua (moto/motos, studio/studios, photo/photos, video/videos).

Nella lingua italiana, invece, la parola radio è invariabile perché, forse erroneamente, è percepita come abbreviazione terminante in -o e, in quanto tale, non si modifica al plurale, come avviene anche per moto-(motocicletta)/moto, foto-(fotografia)/foto, auto-(automobile)/auto e così via, fino al recente e discusso euro-(Europa)/euro.


Antenna

Una prima ipotesi fa derivare la parola antenna da Antemnae, una città dei Sabini, citata anche da Virgilio nel libro settimo dell'Eneide (v. 968: “... e Crustumerio, e la turrita Antenna...”), collocata nella zona in cui l'Aniene e il Tevere confluiscono e, quindi, ante amnes, davanti ai fiumi.

Si tratta di un processo frequente nella formazione dei toponimi. Teramo, per esempio, antica Interamnia, e anche Terni e Termoli, si chiamano così perché erano situate tra due fiumi, cioè inter amnes.

Il termine antenna, usato per indicare tutto quello che era costituito da un'asta di legno lunga e sottile, sarebbe derivato proprio dalle pertiche e dai pali che si producevano nella zona di Antemnae e che erano usati per la costruzione di vari attrezzi. Il gruppo mn di Antemnae si sarebbe trasformato nel gruppo nn di antenna per assimilazione, che è il processo linguistico che si verifica quando due fonemi contigui tendono a diventare identici.

Una seconda ipotesi, che sembra più convincente, ricostruisce la fusione tra ante, davanti, e la radice indoeuropea ten, tendere, stendere, da cui sarebbe emerso il termine antenna, inteso come oggetto che si estende sopra o davanti a qualcosa, come, per esempio, il lungo palo che, posto perpendicolarmente o in posizione obliqua rispetto all'albero di una nave, serviva e serve per tenderne le vele.

Quest'ultima accezione, ancora presente nella terminologia nautica, ha lasciato una traccia anche nella letteratura, come nell'Iliade di Omero tradotta da Vincenzo Monti, che scrive: “...sciolser gli achivi le veloci antenne... ” oppure “...né consentir che antenna in mar si spinga...”.

Successivamente, la parola antenna passò a indicare, per similitudine, anche le lunghe aste che sostengono i gonfaloni, i vessilli, gli stendardi e le bandiere.

In zoologia, si chiamano antenne le protuberanze sensibili presenti sulla testa di molti insetti e crostacei, da cui l'uso in locuzioni figurate come drizzare le antenne, per indicare la necessità di intensificare l'attenzione per percepire dall'ambiente messaggi che altrimenti sfuggirebbero.

Il termine conteneva tutto il necessario, quindi, dalla forma lunga e sottile alla capacità di captare e trasmettere segnali deboli, perché Guglielmo Marconi decidesse, durante i suoi primi esperimenti, di chiamare antenna, nell'accezione attualmente diffusa nel campo delle comunicazioni, il palo in cima al quale collocava il terminale del suo oscillatore.

La parola antenna è entrata, poi, con qualche variazione ortografica, in molte delle più diffuse lingue moderne (inglese: antenna; francese: antenne; tedesco.: antenne; spagnolo: antena).

Un sinonimo, nella lingua italiana, è aèreo, che, come l'inglese aerial [ˈeəriəl], è usato per indicare un'antenna esterna, in particolare una filare, sospesa nell'aria.


Microfono

Ogni lingua è un sistema di simboli fonici arbitrari usati per articolare i messaggi verbali che passano dall'apparato fonatorio del parlante all'apparato uditivo di chi ascolta il quale, se il codice linguistico è condiviso, ha la possibilità di ricostruire il pensiero del suo interlocutore.

La comunicazione verbale può avvenire solamente se chi parla e chi ascolta sono a portata di voce, a meno che non si riesca a escogitare qualche sistema per inviare la voce (fono) lontano (tele).

Trascurando i modesti risultati che si possono ottenere con voci possenti - come quella dell'eroe greco Stentore, ricordato da Omero e dal cui nome deriva, appunto, il termine stentoreo – oppure con vari mezzi meccanici di amplificazione, a cominciare dalle maschere del teatro greco che avevano, tra l'altro, anche la funzione di megafoni, è del tutto evidente che per coprire distanze significative occorre almeno un telefono e che, per farlo funzionare, è indispensabile un microfono, dal greco mikrós, piccolo, e phōné, voce.

Dal punto di vista linguistico, l'uso del microfono rivoluziona la comunicazione a distanza perché trasforma la voce in impulsi elettrici che possono essere elaborati e inviati a un apparato ricevente che può ricostruire il messaggio verbale così com'era stato articolato, eliminando, in misura proporzionale alla fedeltà della riproduzione, la possibilità di errori dovuti alla seconda codifica.

Il termine microfono non ha subito la sorte toccata a molte parole di origine greca o latina che sono arrivate, nel corso dei secoli, nel mondo anglosassone e sono poi tornate, sulla spinta di una forte supremazia tecnologica e commerciale, con la pronuncia anglicizzata, tanto da essere percepite dai più come proprie della lingua inglese.

Micro ['mikro], invece, come primo elemento di parecchie parole composte, ci è stato restituito con la pronuncia cambiata in ['maikro], così come, per esempio, l'alata dea greca della vittoria Nike ['ni:ke:] è diventata ['naik].

In italiano, microfono si può abbreviare in micro, così come in inglese microphone [ˈmaikrəˌfəun] si abbrevia in mike ['maik], che si ritrova anche nel verbo to mike, usato nel senso di dotare qualcuno di microfono e da cui deriva, purtroppo, la forma italiana microfonare.

Fonti:

Waterman, Breve storia della linguistica, La Nuova Italia, 1968.

Aniello Gentile, Principi di Trascrizione fonetica, Liguori, Napoli, 1966.

Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Le Monnier.

http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Linguistica;

http://thefreedictionary.com/

http://www.accademiadellacrusca.it/;

http://www.etimo.it/;

http://www.treccani.it/portale/opencms/Portale/home;

http://it.wikipedia.org/wiki/Cronologia_della_radio.


Domenico Felaco IK6QGE, RadioRivista 7-8/2010

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